Banche Centrali: rallentamento economico.

    Banche Centrali: rallentamento economico.

    Negli ultimi tempi le curve dei rendimenti di molte economie avanzate hanno cambiato forma spostandosi verso il basso, riducendo la loro volatilità e la loro pendenza fino ad appiattirsi se non addirittura invertirsi con tassi d'interesse a breve superiori a quelli a lunga scadenza.

    Tra i fattori che hanno contribuito a questo fenomeno vi sono le politiche monetarie non convenzionali adottate dalle principali banche centrali del pianeta in risposta alla severa crisi iniziata oltre 10 anni fa e che dalla finanza si è notoriamente trasmessa all'economia reale.

    Con tempistiche differenti, anche se parzialmente sovrapposte, la FED, la Banca d'Inghilterra e la BCE (oltre che la pionieristica Banca del Giappone) hanno supportato le rispettive aree valutarie di riferimento attraverso tre canali principali: le indicazioni prospettiche (forward guidance), il taglio dei tassi d'interesse e i programmi di acquisto di titoli su larga scala (meglio noti come quantitative easing o QE), con cui hanno immesso sul mercato un'enorme quantità di liquidità.

    Risultato: i bilanci delle banche centrali si sono gonfiati a dismisura (+344% la Fed, +380% la Boe e +216% la Bce), i tassi d'interesse sono ai minimi storici – specie in Eurolandia – e gli indici azionari sono saliti.

    Tutti contenti, allora? Non proprio. Rischio bolle a parte (con l'immobiliare che tocca nuovi massimi in paesi come Germania e Spagna), l'inflazione non ingrana e l'economia globale appare in rallentamento.

    Negli ultimi 10 anni il Pil degli Stati Uniti è cresciuto quasi ininterrottamente, e anche l'Eurozona – col supporto della Bce – è tornata su un sentiero di crescita e ha archiviato il 2018 con un +1,9%. Dato medio ovviamente, perché – come sempre – la nostra unione monetaria brilla per eterogeneità al suo interno: +1,4% per il Pil tedesco e +0,9% per quello italiano.

    Ma già nella seconda metà del 2018 ci sono state le prime avvisaglie di rallentamento: su base trimestrale, l'economia Usa è scesa dal 4,2% (II trim.) al 2,2% (IV trim.), con un parziale recupero nel I trimestre 2019 (+3,1%), e anche quella dell'area euro ha dato segnali di cedimento. Persino la locomotiva tedesca è in affanno con i principali indici del settore manifatturiero in sostanziale arretramento da oltre un anno e la contrazione delle vendite al dettaglio.

    I timori di deterioramento delle prospettive di crescita hanno costretto le banche centrali a riconsiderare i piani di normalizzazione della politica monetaria. Il primo a ingranare la retromarcia è stato Powell: a inizio gennaio il n. 1 della Fed, torchiato da Trump e messo in difficoltà da uno shift al ribasso dei principiali indicatori dell'inflazione attesa, ha messo in stand-by il rialzo dei tassi sui Federal Funds e ha aperto ad una revisione del percorso di tapering, ossia di ridimensionamento degli attivi della banca centrale. Ma l’entusiasmo prodotto da queste rassicurazioni è durato poco: complici l'incognita sulle sorti del commercio globale e l'escalation delle tensioni con l'Iran, in molti prevedono che per il 2019 non si crescere oltre il 2,5%.

    I segnali che arrivano dai mercati finanziari sono preoccupanti: dallo scorso marzo la curva dei rendimenti sui titoli di Stato americani è invertita, con i rendimenti a 3 mesi sopra quelli a due e persino a dieci anni.

    USA –CURVA DEI RENDIMENTI SUI TITOLI GOVERNATIVI

    Storicamente un fenomeno del genere si verifica dai 3 ai 4 trimestri prima di una recessione.

    La spiegazione intuitiva è che quando gli investitori temono una fase economica sfavorevole

    si spostano sui beni rifugio, come il titolo di Stato a lunga scadenza (di solito il decennale),

    facendone salire i prezzi e quindi calare i rendimenti. A questo si aggiungono le aspettative

    non rosee sull'inflazione testimoniate dal calo delle quotazioni sugli inflation swap e

    dall'assottigliamento del differenziale tra i rendimenti impliciti dei titoli di Stato ordinari e

    quelli indicizzati all'inflazione, differenziale che rappresenta l'inflazione di equilibrio

    percepita dagli operatori. Di conseguenza i mercati si accontentano di un minor premio al

    rischio nel medi-lungo termine e quindi di tassi d'interesse più bassi su questo tratto della

    curva.

    Partendo proprio dagli spread tra i rendimenti a 10 anni e quelli a 3 mesi, la Fed di New York

    stima la probabilità di recessione sui 12 mesi successivi: a fine maggio questa probabilità era

    prossima al 30%, lo stesso del luglio 2007, poco prima dell'ultima recessione americana.

    USA - INVERSIONE DELLA CURVA DEI RENDIMENTI GOVERNATIVI E PROBABILITÀ DI RECESSIONE

    Anche altri indicatori sembrano suggerire un raffreddamento dell'economia americana ed europea. Nell'ultima rilevazione l'indice delle condizioni di business percepite dal settore manifatturiero dello Stato di New York è crollato del 148%, e l'indice Bloomberg del sentiment degli analisti sulle condizioni macroeconomiche è in territorio negativo dallo scorso autunno. Nell'area euro, gli indicatori di fiducia delle imprese sono in calo da inizio 2018.

    Comprensibile quindi che nell'ultimo comitato direttivo della FED, Powell abbia aperto a più d'una sforbiciata dei tassi già entro l'anno. La notizia peraltro è arrivata in tandem con un annuncio ben più inatteso, quello di Draghi che il giorno prima aveva fatto aperture a una ripresa del QE, terminato da appena sei mesi (senza contare che i reinvestimenti dei titoli già acquistati dall'Euro-sistema e giunti scadenza non sono stati mai interrotti).

    Da entrambe le parti dell'oceano la finanza ha brindato alle buone notizie provenienti dalle banche centrali. Eppure qualcuno ha dei dubbi. In passato, quando la Fed aveva tagliato i tassi disponeva di uno spazio di manovra dai 400 ai 500 punti base prima di finire in territorio negativo. Oggi invece il limite superiore al tasso-obiettivo sui Federal Funds è 2,5%: la metà dello spazio di manovra del 2007.

    Veniamo alla BCE: le parole di Draghi hanno spinto per la prima volta sotto zero i buoni del Tesoro francese (OAT) fino alla scadenza dei 10 anni per non parlare del Bund che ormai scambia a rendimento negativo sino alla scadenza dei 15 anni. E difficilmente le cose cambieranno se si disattiverà il limite superiore (33%) agli acquisti possibili per ogni singola emissione, magari per bypassare la scarsità di Bund disponibili sul mercato secondario.

    Oggi le curve dei rendimenti sui titoli di Stato delle principali aree valutarie si somigliano tutte: USA, Regno Unito, Australia, Canada, Germania, Giappone. Sono tutte invertite o quantomeno molto appiattite.

    CURVE DEI RENDIMENTI GOVERNATIVI PER PAESI APPARTENENTI AD AREE VALUTARIE DIVERSE

    Addirittura le obbligazioni sovrane tedesche rendono meno di quelle giapponesi su tutte le scadenze. La banca centrale giapponese, del resto, da qualche anno ha cambiato i propri obiettivi spostandosi dal controllo dell'inflazione a quello dei tassi d'interesse (yield control), un target senza dubbio più realistico perché più direttamente collegato agli strumenti a disposizione dell'autorità monetaria. Non a caso il passaggio allo yield control è al centro del dibattito internazionale sulle nuove frontiere delle banche centrali e negli USA potrebbe diventare realtà già nel 2020.

    Nell'Eurozona una riforma del genere appare più ardua a causa dello spread: difficile controllare simultaneamente 19 curve dei tassi d'interesse. La sfida per la nostra valutaria è quindi duplice: ripristinare un'unica curva dei rendimenti per tutti i paesi membri e restituire a questa curva una fisionomia “normale”. Obiettivi che potrebbero essere perseguiti in parallelo con un national twist, come proposi qualche mese fa su queste pagine, suggerendo alla BCE di concentrare – attraverso le banche centrali nazionali (BCN) – gli acquisti di titoli di Stato sui paesi più indebitati e di accantonare il criterio della capital key.

    Una simile misura favorirebbe la normalizzazione e la convergenza delle curve e darebbe un segnale implicito di condivisione dei rischi (risk sharing) all'interno dell'area euro, in quanto facoltizzare le BCN dei paesi ad alto debito ad assumere più rischi sotto l'ombrello dell'Eurosistema vuol dire de facto un primo embrionale risk sharing per lo meno per la parte che eccede la capital key. I paesi molto indebitati – come l'Italia – sarebbero supportati nell'assorbimento del loro eccesso di offerta di titoli di Stato, mentre il calo nella domanda di Bund permetterebbe alla Germania di tornare rendimenti positivi con beneficio per il suo sistema economico-finanziario. Dimensione e durata dell'intervento sarebbero, peraltro, relativamente circoscritte se si chiarisse inesorabilmente che l'uscita dall'euro non è un'opzione sul tavolo dato che oggi tale rischio rappresenta spesso una componente significativa degli spread ma anche quella più facilmente comprimibile con opportune indicazioni prospettiche da parte della classe dirigente di ciascun paese.

    In un momento di riflessione generale su obiettivi e strumenti della politica monetaria ed economica, ogni parte in causa ha il dovere di dare il proprio contributo per il perseguimento di una stabilità durevole a livello nazionale e dell'intera unione monetaria europea.

    @Marcello Minenna - Economista

    Fonte "il Sole 24 Ore"

     


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