Giustizia è economia.

    Giustizia è economia.

    C’è un testo, “L’enigma della crescita” del professor Luca Ricolfi, che chiunque governi dovrebbe studiare ed utilizzare per orientare le proprie scelte.

    In esso, tra le tante ed approfondite cose, sono analizzati in maniera scientifica i fattori che influenzano la crescita economica di una Nazione: il capitale umano, il benessere dei cittadini, le tasse sull’impresa ed i suoi utili, gli investimenti diretti esteri, la qualità delle istituzioni.

    (1)Intervenire sul capitale umano è una partita di lungo periodo: si tratta di scuola, di cultura, di senso del dovere e dello Stato. Una partita, si permetta una battuta amara, che si potrà ricominciare a giocare quando saranno finiti i TFR dei padri, che stanno mantenendo i figli al rientro dall’erasmus. C’è da ricostruire, anche simbolicamente, un intero apparato di valori e competenze. 

    (2)Quanto al nostro benessere, e torniamo ai fasti dei TFR di un tempo, è evidente che anni di tranquillità economica abbiano reso meno urgenti certe istanze di miglioramento. 

    (3)E che le nostre imprese vedano erosi i propri guadagni dall’erario è un altro fatto troppo banale per essere ricordato. Troppo banale e troppo velleitario pensare alla soluzione della riduzione delle tasse: lo si dice da sempre, ma se non si mette mano alla spesa pubblica non si può e con i chiari di luna delle finanziarie che si annunciano certamente è impossibile.

    Meglio pensare ad un patto tra cittadini e Stato che permetta quantomeno di arrivare agli obbiettivi minimi di certezza e trasparenza dell’imposizione. Si dia almeno agli imprenditori la possibilità di fare politica e pianificazione fiscale.

    (4)(5)Dove invece si può intervenire “qui e ora” è sulle altre due forze che governano la crescita: gli investimenti esteri e le nostre istituzioni. La nostra Nazione è appetita dagli investitori di tutto il mondo: nessuno “bello” come noi, nessuno capace come noi, nessuno con la nostra storia.

    Ma al di là dell’imposizione fiscale, che è più alta di certi luoghi, ma meno che in altri, il problema principale che limita l’attrattività del paese è l’inefficienza della Pubblica Amministrazione e dei Tribunali. 

    Il topos su cui si gioca la crescita, quantomeno quello sul quale possiamo e dobbiamo intervenire è il tempo.

    Al di là delle leggi amministrative, ricchissime di petizioni di principio, nessuno è in grado di sapere quale periodo possa intercorrere tra il momento dell’istanza e quello della risposta. Se oggi un imprenditore chiede di essere autorizzato a costruire, a svolgere una certa attività, ad implementare un nuovo ciclo produttivo, l’autorizzazione o il diniego può giungere anche dopo anni.

    Eppure i termini ci sono, le norme li prevedono. Ma non vengono, nella quasi totalità dei casi, rispettati da parte di chi opera all’interno degli Enti Pubblici cui spetta la responsabilità di emettere il provvedimento. E siccome una decisione è buona solo se è tempestiva, gli imprenditori di turno, specie se stranieri, non investono. Ciò accade per una ragione molto semplice: il funzionario pubblico inefficiente non ha nulla da temere.

    La giurisprudenza fatica a riconoscere il tempo come “valore in sé”, è dunque il rimedio risarcitorio è impraticabile: bisognerebbe dare la prova, evidentemente diabolica, che la risposta tempestiva sarebbe stata anche positiva. Esiste altresì una sanzione penale, l’articolo 328 comma II, c.p., che punisce il ritardo, ma è sufficiente per colui che venga messo in mora spiegare le ragioni di tale ritardo per andare esente da ogni responsabilità. Una situazione certamente illiberale.

    Se, ad esempio ed ex multis, un portatore di partita IVA non presenta la dichiarazione dei redditi entro i termini stabiliti dalla legge, viene sottoposto a processo penale per “omessa dichiarazione”. Ed allora perché se a non rispettare i termini è un dipendente pubblico non vi è una norma simile? A quale principio di diritto positivo o naturale si ispira questo ordine di cose? A nessuno evidentemente.

    Le regole sono importanti, anzi sono la cosa più importante, ma debbono valere per tutti. Una piccola percentuale di cittadini italiani sceglie di imprendere, di rischiare, di creare sviluppo; l’altra, la più rilevante,  legittimamente di stare tranquilla, di percepire uno stipendio e di tornare a casa presto la sera. Ma le leggi sono tutte a protezione della maggioranza meno esposta e nessuna tutela invece i pochi coraggiosi che rischiano. Paradossale, ma vero.

    Sia chiaro, l’imprenditore che opera illecitamente va sanzionato severamente, ma quello virtuoso va tutelato come fosse un quadro rinascimentale. Un primo passo verso l’auspicato riequilibrio potrebbe essere rappresentato dall’introduzione di sanzioni amministrative e penali per “l’inefficienza pubblica”, né più tenui, né più aspre di quelle previste per quella privata.

    L’equazione è facile: responsabilizzare i funzionari pubblici significa riequilibrio del binomio cittadino/Stato, significa rispetto dei termini, significa maggiori investimenti. Una riforma a costo “0”, con un grande ritorno.

    Non a costo “0”, ma con altrettanto grande ritorno sarebbe l’intervento sui Tribunali.

    Il nostro ordinamento è uno dei più sofisticati e garantisti del mondo, con buona pace di Kelsen e dei vari provinciali, che vedono sempre nei formanti stranieri la soluzione del problema. Il vulnus è, ancora una volta, quello dei tempi. Il mondo del penale è ormai rovesciato, per così dire: il colpevole ha la speranza della prescrizione (o comunque delle misure alternative al carcere), l’innocente la prospettiva di un calvario che dura anni. Quello del civile, si perdoni la volgarità, è una macchina che mangia soldi. Un esempio lampante su tutti emerge dai dati che derivano da uno studio della Banca d’Italia e cristallizzato nella “Nota di stabilità finanziaria e vigilanza (n. 3, Aprile 2016). Da essa si apprende che al dicembre 2015 il totale dei crediti deteriorati, cioè denaro che la Banca ha erogato e che fatica o ha perso ogni speranza di recuperare, ammontava a 360 miliardi di Euro. Una cifra impressionante. E si apprende altresì che la cifra che gli operatori di mercato specializzati sono disposti ad offrire per acquistare tali crediti è inversamente proporzionale ai tempi di recupero giudiziali. Volgarmente: più il Tribunale fa in fretta ad accertare il credito ed a eseguirlo, più quel credito vale sul mercato. Tale studio stima che l’accorciamento di tali tempi anche di un solo anno accrescerebbe il prezzo di 4,6 punti percentuali. Se si applica tale percentuale al totale dei menzionati crediti deteriorati si ottiene una cifra miliardaria, una finanziaria. Miliardi che, al netto delle perdite, irrorerebbero di linfa vitale gli istituti di credito e di conseguenza il sistema economico. Non è difficile da comprendere che più la Banca “sta bene”, più eroga credito e meno lo Stato deve intervenire per sostenerla. Tribunali più efficienti uguale più soldi nel sistema e meno spesa pubblica. 

    Per raggiungere questo risultato la ricetta passa attraverso tre punti fondamentali. (1)Nuove risorse per i Tribunali in termini di personale amministrativo. L’ultimo concorso risale agli anni ’90 e servirebbe poco in termini di investimento (la cifra non supera lo 0,3 del bilancio dello Stato, del quale la Giustizia è la cenerentola), (2) meritocrazia nella scelta dei capi degli Uffici, (3) specializzazione degli avvocati.

    L’efficienza delle istituzioni è “il problema”, è la cosa sulla quale costa meno intervenire e che darebbe i maggiori frutti. Si legga Ricolfi, si studino i numeri e si decida. “Il tempo” stringe.

     

     


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